Seguendo le tracce di Marco Polo
Sta nevicando tanto, sono in Kyrgyzstan da quasi una settimana ormai, oggi lascerò l’incantevole valle del Song Kol, per visitare nuovi luoghi di questo bellissimo Paese: si parte di buon ora per percorrere i 250km che separano la valle del Song Kol a Tash Rabat.
Sono sempre accompagnato da Medeth, l’autista che mi ha portato dalla cittadina di Korchkor alla valle del Song Kol col suo fuoristrada. La pista praticamente non si vede, intorno tutto è grigio, solo qualche mucca che apparentemente indifferente cerca di brucare l’erba sotto il manto nevoso. Chissà al tempo di Marco Polo come facevano le carovane a procedere a piedi in queste condizioni.
Dopo 1 ora si entra nella regione di Naryn, e la strada è nuovamente asfaltata anche se in condizioni non ottimali. Nevica sempre meno, e appare perfino un pallido sole che dopo un po’ ha la meglio e in breve sembra non abbia nemmeno mai nevicato.
La strada prosegue incastonata tra verdi montagne dalle quali spuntano grandi fiancate rocciose, tanti cavalli bradi, e canyon panoramici stupendi che attraversiamo in un continuo sali e scendi. Dall’alto del passo Karat Al il panorama sulla strada a serpentina scavata nel fianco della montagna è spettacolare, Medeth ne approfitta per fare una sosta e per farsi fare una foto ricordo con la polaroid, indossando in testa l’ak kalpac, il tradizionale copricapo kyrgyzo. Comincia la ripida discesa, tra una fitta e ricca vegetazione fatta di cespugli e i primi alberi, alti abeti che ricoprono i pendii delle montagne; qui il vento del Song Kol non è di casa. Ormai della neve neanche l’ombra, si prosegue lungo una stretta valle, fiancheggiando il piccolo fiume Song Kol.
Il deserto di dune verdi
Il paesaggio muta in continuazione, la strada, che nel frattempo è ridiventata una pista ghiaiosa, ricomincia a salire, e dall’alto del Sery Bel Pass il panorama è di quelli da lasciare senza parole: sembra un deserto fatto di dune verdi, montagne che sembrano di velluto e dalle forme morbide, dietro alle quali spiccano alte vette innevate; ovunque ci si volti, colori e montagne completamente diversi.
Dopo 3 ore di panorami mozzafiato, si incrocia la strada A365 all’altezza di Kara Unkur, ovvero la strada che porta al Passo Tourghat e quindi in Cina. Fino a qui non abbiamo incrociato nessuno, ora invece siamo su una normale strada asfaltata a doppio senso, fiancheggiata dai pali del telefono, e percorsa da lunghi tir cinesi. Oltrepassiamo alcuni piccoli villaggi: ad Ottuk i bambini sono appena usciti da scuola, le bimbe tutte con grandi fiocchi bianchi ai capelli che le fanno sembrare delle bomboniere, i bimbi in giacca e pantaloni, tutti da soli che si dirigono verso le loro abitazioni. Breve sosta a Naryn, che invece è più una cittadina, e subito la strada risale fino al Kyzyl Bel Pass, con le sue montagne dai colori verde e rosso, e un cielo finalmente blu. In macchina, col sole che picchia, fa perfino caldo. E dire che siamo partiti sotto una tormenta di neve solo qualche ora fa.
Per un tratto di strada noto per terra delle cose rosse che si muovono, sono tantissime, a migliaia; chiedo a Medeth di fermarsi, sono cavallette giganti e rosse, mai viste, è impressionante quante siano, e il passaggio delle auto fa una vera ecatombe sull’asfalto.
La strada ridiventa sterrata e molto più ampia e monotona, fino ad arrivare alla deviazione sulla sinistra per Tash Rabat: da qui si prosegue fino ad una stretta gola rocciosa dove dal nulla appare una sbarra e un improvvisato guardiano che fa pagare 50 som rilasciando pure la ricevuta (saranno 80 cent).
Altri 3 km di pista e finalmente ecco il caravanserraglio di Tash Rabat.
Tash Rabat: il caravanserraglio lungo l’antica Via della Seta
Ora non c’è nessuno, ma qui agli inizi del secolo e secondo alcune fonti anche molto prima, le carovane sostavano per riposarsi e far riposare gli animali nelle stalle. Da qui passavano le grandi carovane che attraversarono per secoli queste zone, per trasportare, non solo la preziosa seta proveniente dall’estremo Oriente, ancora semi sconosciuto, ma qualsiasi altro materiale, dall’oro all’argento, dalla lana al corallo. Per mesi sudditi, commercianti e viaggiatori, attraversavano a piedi infuocati deserti e gelidi passi di montagna, in condizioni spesso ostili, in quella che si può definire una rete autostradale del commercio di quell’epoca e i Rabat (caravanserragli) erano una sorta di autogrill. Stupido esempio a parte, attraverso queste rotte hanno cominciato a conoscersi e a commerciare due mondi così lontani e sconosciuti, si sono diffuse malattie, religioni, scoperte. E io ora sono qui, in totale solitudine, in uno di quelli che pare essere stato uno dei caravanserragli più importanti, a giudicare dalla cura della costruzione.
Tash Rabat appare come un fortino di pietra che in parte è scavato nel terreno, come se la sua parte anteriore uscisse fuori da una collina. Ha la forma quadrata, le mura laterali non superano i 20 metri ad occhio, al centro una grande cupola sempre in pietra, mentre l’ingresso è costituito da una grande porta ad arco.
Dentro è buio, la luce filtra solo dai piccoli fori che fungevano da finestre. Sembra un labirinto di pietra, con una piccola piazza centrale, sotto la cupola, e diverse stanze di varie dimensioni.
Fa impressione vedere le grosse pietre ancora perfettamente incastonate ed integre, considerando l’epoca della costruzione e il trasporto delle stesse. Cammino e poso le mie mani qui dove secoli fa forse lo stesso Marco Polo ha sostato nel suo viaggio in Oriente, qui dove, forse, ha scritto appunti del suo celebre diario di viaggio poi diventato “il Milione”. E’ suggestivo. Non c’è per fortuna neanche l’ombra di turisti. Esco e mi sdraio nell’erba sulla salita della collina alle spalle del caravanserraglio: c’è un silenzio surreale e quando anche il vento cessa di soffiare, si ode solo il cinguettio degli uccelli che volano nel cielo, azzurro intenso.